MANDARA’ TRADUTTORE

Nel recente volume di liriche «Tra il fingere e il tacere» di Emanuele Mandarà c’è una silloge di traduzioni dall’inglese. Sono in tutto trentasette liriche di famosi poeti come Moore. Longfellow. Poe. Tenny son. Swinburne, Dickinson, Rossetti. Alcune sono tradotte per la prima volta in Italia come quelle di Lyon Phelps ed edite in «Epoca» di Mondadori. Il Mandarà rivela in esse di possedere le tre doti principali per realizzare la traduzione-creazione: prima) il possesso sicuro della lingua originale; seconda) la penetrazione «nell’onda sonora» del ritmo, a dirla con una espressione ungarettiana; terza) singolare gustò e capacità espressiva. La prima dote, senza le altre ridurrebbe una traduzione ad un lavoro di precisione filologico-linguistica. la seconda da sola ne farebbe una variazione tematico-lirica soggettiva, e la terza una esibizione di lusus letterario alessandrino. La fusione delle tre doti supera ogni tradimento del testo e ogni alienazione di esso nei sentieri delle ritorsioni o degli svolazzi inventivi. Difficoltà non comuni sono state superate senza ricorso né a virtuosismi né a conati di prestigio, difficoltà e di espressione e di ritmo e di tecnica ed infine di scrupolosa fedeltà a particolari precisi del testo. La scelta delle liriche illumina la tematica del mondo poetico mandavano nelle sue componenti creative visibili sia nella certezza della «labilità» dei moti esistenziali in cui si configura il destino dell’uomo nel tempo, sia nella presenza della sintesi dualistica del contrasto colpa- riscatto, vita-morte, sia nell’enucleazione del paesaggio sentito non come fine a se stesso ma come a- spirazione alla libertà ed al «rischio» della «immedesimazione nell’essenza cosmica delle cose». Ecco, infatti, in Henry Wadsworth Longfellow, di Portland, il maggiore poeta americano, creatore, tra l’altro, di una bella traduzione di Dante, il consapevole possesso del valore contingente non terminativo della morte: Non è il suo estremo termine la fossa; polvere sei, ritornerai alla polvere non fu detto dell’anima. L’esistenza è presenza di foglie che cadono “ammortite” al soffio del vento, è pioggia accettata di ’’giornate scure e tristi”; è corsa vorticosa verso il tramonto s’aprì all’alba, e già era nel vespero una morta cosa. Non c’è possibilità per portar via da essa il dolore; questo la domina, ne forma l’essenza, ne rende positiva la struttura metafisica, ne evidenzia i valori universali come la solidarietà se aiuterò nel nido a ripararsi l’ala di un pettirosso indebolita no, più non sarà vana la mia vita, canta Dickinson Come l’ansia religiosa l’evitatrice di salvezza e di riconquista dei frutti del di Alice Meynell alto è il proprio calvario: nei versi grido Signore?, a salvare sei corso, a nutrir, fasciare,.. e più sotto:lacrimare hai saputo, svelandoti a noi tristi, come l’innocente tenerezza dei biSenza titolombi: dice Swinburne. Bimbo, fiore di luce dormi; tu vedi con i tuoi sogni – dei nostri più limpidi – come l’amor più forte della morte. Con struggimento elegiaco Edgar Allan Poe evoca la sua fanciulla dal profumo leopardiano, la sua Annabel Lee che non visse che di / un pensiero: amarmi è ch’io ramassi. Il paesaggio è un’altra componente positiva della traduzione mandareana. Fa Cile su di esso è divagare nel colore e finalizzarvi accenti idillici; ma decisa è la resistenza che l’interprete oppone a tali tentazioni e la reazione ad esse è palese dalla sintassi scarna, lineare senza artificiose tensioni o tortuosità di stacchi. La sobrietà della parola ti rende ancor più prodigioso il miracolo del lievitare di una corolla, e in ; Nat Scammacca ti fa sentie il tumulto che fervein seno a un boccio in chiara luce blu in Dickinson lo stupore estivo siderale ma a sera mille scintille aprono il cielo bruciato o la dolcezza dei primi mattini d’autunno in cui gote più rotondette hanno ora già le bacche… Sciarpa più gaia l’acero si adatta e la campagna una gonna scarlatta. Il paesaggio non si chiude in una discorsività oggettiva episodica che appiattisce in sé l’onda lirica, ma attinge al brividio cosmico che è nel nostro subcosciente anelante a liberarsi in nota umana e si fa vita delle cose e vita nostra. Lo sforzo di piegare e modellare il linguaggio, se si pensa alla divergenza strutturale delle due lingue e alla vis semantica di alcune tipiche sostantivazioni di termini, è stato considerevole: a volte si respira un’aria di artista patito. Niente di improvvisato balza dalla lettura della breve silloge, anche se talora la rima, mai supervacanea e gratuita, è assoggetta ad assonanze (ratto… alto) trasvola… l’ora), di cui talune forzate (come: fortunale… vele). Tra le righe si legge una misurata cadenza sillabica: alcune strutture di settenari e di endecasillabi nella loro voluta ritmica ariosa richiamano quelle leopardiane cariche di essenzialità idillica e cosmica. La raccolta, a nostro modesto avviso, ci scopre più che un nuovo volto di Mandarà oggettivato in una impersonalità di tematica creativa, una continuazione ideale della sua anima pronta a cogliere, in volo lirico, il realizzarsi quotidiano, fra luci ed ombre, della nostra breve presenza umana nel mondo. Mandarà traduttore e Mandarà poeta si fondono in una unità di mondo e di nucleazioni contemplative.

Carmelo Lauretta

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